Mi hanno profetizzato che sarei vissuto fino a cent'anni e siccome li ho compiuti non vedo perché dovrei dubitarne. Non morirò da cristiano, ma il mio scalpo è intatto e se esiste un terreno di caccia eterno, lì sono diretto. Oppure allo Stige. Al momento credo che la mia vita sia stata fin troppo breve: quanto bene potrei fare se mi fosse concesso un altro anno in piedi. Invece sono inchiodato a questo letto, a farmela addosso come un poppante.
(Philipp Meyer, Il figlio)
Buonasera lettori in pantofole! Oggi vi parlerò finalmente di un romanzo che era da tempo sul mio scaffale. Quando posai per la prima volta gli occhi su Il figlio, ne rimasi subito colpita: la cover che evocava il selvaggio west della tradizione e la trama che prometteva un'avvincente saga familiare, erano ingredienti troppo invitanti per la sottoscritta. Mi sono lasciata sedurre da Philipp Meyer e ora eccomi a raccontarvi le mie impressioni. Un'anticipazione? Era tanto che non leggevo un romanzo così avvincente... ma partiamo dalla storia:
1849: Eli McCullough ha 13 anni quando una pattuglia Comanche assalta la sua casa di frontiera, sul Pedernales. Mentre la madre e la sorella vengono trucidate, Eli e il fratello Martin sono ridotti in schiavitù. Ma se quest'ultimo incontrerà un'onorevole morte durante la ritirata, Eli supererà con la sua forza di volontà ogni prova e si guadagnerà il rispetto di Toshaway e degli altri guerrieri della tribù. E così Eli diviene suo malgrado Thieteti e conosce la libertà e gli spazi infiniti delle terre indiane, così come la violenza e la ferocia della vita di frontiera sino a quando la storia e il destino lo riporteranno tra i bianchi. Inizia così l'epopea della famiglia McCullough impressa a fuoco, quale marchio indelebile, nelle vicende del nascente stato texano. Da schiavi ad allevatori, da patrón a petrolieri, la storia dei McCullough è una storia di rapine, ambizioni, sangue e violenza ma anche di orgoglio e misericordia. Se Eli non avrà esitazioni nella sua scalata al successo, il figlio Peter dovrà fare i conti con gli spettri di un inevitabile massacro, incapace di governare le redini della propria famiglia e imporre un nuovo cammino. Sarà allora sua nipote Jeanne, fiera e orgogliosa come il bisnonno, a traghettare le fortune dei McCullough fin nel ventunesimo secolo, in un mondo che non ha più niente del fascino del selvaggio west e delle sue immense praterie. Ma la storia, si sa, è un eterno ritorno e sarà proprio Jeanne a dover affrontare la chiusura del cerchio...
IL MIO PENSIERO
Un romanzo epico, un'epopea scritta col rosso del sangue e delle riarse terre texane. Dalle vaste praterie sul confine messicano al Caprock, da Austin a Dallas, Philipp Meyer mi ha fatto viaggiare nel tempo e nello spazio. Ho assaporato le vicende di uno stato agli albori della sua nascita, bianchi e indiani, texani e messicani, sudisti e nordisti, quasi due secoli di storia attraverso le vicende e le memorie di una sola famiglia. Posso dire che l'epopea dei McCullough mi ha conquistata dall'inizio alla fine (e parliamo di ben 546 pagine!), una storia che non ha niente di innocente, dove non ci sono demoni e santi perché si sa il destino dell'uomo è un inevitabile intrecciarsi di bene e male.
La narrazione procede incalzante, a ritmi serrati e ruota attorno a tre personaggi principali: il colonnello Eli, capostipite delle fortune dei McCullough, suo figlio Peter e la di lui nipote Jeanne Anne. Se l'aura che circonda Eli è quasi mitica e abbraccia i momenti più affascinanti della storia texana, il richiamo del Wild e le vaste praterie abitate da indiani e bisonti, un'immagine totalmente diversa di quest'uomo compare nei diari di suo figlio Peter, membro di una ormai potente e temuta famiglia di allevatori. A dominare, in quelle pagine, sono gli scontri con i messicani discendenti delle antiche famiglie di hidalgo spagnoli e la guerra inevitabile e sanguinaria tra i McCullough e i Garcia, alimentata dall'ambizione sfrenata di Eli sino all'eccidio che graverà per sempre sulle due famiglie come una maledizione. Sarà Jeanne, donna forte e orgogliosa, cresciuta sin da piccola in un ambiente maschile, a dover fronteggiare quella maledizione in una terra che non ha più niente dell'antico fascino, riarsa e resa sterile dalle torri petrolifere rigurgitanti oro nero. Perché come sottolinea Meyer la storia non è altro che un eterno ritorno: Un uomo, una vita: era quasi inutile parlarne. I visigoti avevano distrutto i romani, ed erano stati distrutti dai musulmani. Che erano stati distrutti dagli spagnoli e dai portoghesi. Non serviva Hitler per capire che non era una bella storia. Eppure lei era lì. Respirava, faceva quei pensieri. Il sangue che scorreva nella storia poteva riempire tutti i fiumi e gli oceani, ma nonostante quell'ecatombe, tu eri lì.
Tra i personaggi, a colpirmi maggiormente è ovviamente stato Eli/Thieteti figura eroica e demoniaca al tempo stesso, vero cacciatore nell'anima, capace di cavalcare la storia e il destino e disposto a tutto per farlo. E tuttavia a dominare nel suo cuore sarà sempre l'amore e il rimpianto nei confronti della vita indiana selvaggia e libera: Sarei potuto morire ogni giorno, ucciso dai bianchi o dagli indiani nemici, o assalito da un grizzly o da un branco di lupi, ma raramente facevo qualcosa controvoglia, e forse era questa la differenza principale fra i bianchi e i Comanche: i bianchi erano disposti a rinunciare alla libertà per vivere più a lungo e mangiare meglio, i Comanche no.
E un grande pregio di questo romanzo è proprio l'accuratezza con la quale Philipp Meyer ha ricostruito la vita indiana, cinque anni di studi e documentazione che davvero trasudano dalle pagine incatenando il cuore del lettore o meglio della sottoscritta.
Lo stile è immediato, ruvido, al lettore niente e taciuto, neanche nei momenti più atroci e terribili: rapine, eccidi, stupri ma anche la bellezza incontenibile della natura selvaggia che si dispiega in impareggiabili immagini e descrizioni.
Ultima nota: nel libro si fa spesso riferimento ai grandi romanzi e film che hanno costruito il mito del Texas Giant di Edna Ferber (da cui fu tratto Il Gigante con James Dean) e la stessa serie televisiva Dallas si ispirerebbero nientemeno che alle vicende dei McCullough (ma quante ne inventa questo Meyer!!! Geniale ^^).
Insomma non voglio menare il can per l'aia, era davvero molto tempo che non leggevo un romanzo così affascinante, ben scritto e accurato, Philipp Meyer mi ha conquistata su tutta la linea. Cinque pantofole.
TRAMA: Dalle grandi praterie annerite da immense mandrie di bisonti, agli smisurati ranch di proprietà di un pugno di allevatori che regnavano come monarchi assoluti su schiere di vaqueros, al paesaggio arido e desolato punteggiato dalle torri dei campi petroliferi, la storia del Texas occidentale è la storia di un susseguirsi di massacri, la storia di una terra strappata di mano piú e piú volte nel corso delle generazioni. E inevitabilmente anche la storia dei McCullough, pionieri, allevatori e poi petrolieri, è una storia di massacri e rapine, a partire dal patriarca Eli, rapito dai Comanche in tenera età e tornato a vivere fra i bianchi alle soglie dell'età adulta, per diventare infine, sulla pelle dei messicani e grazie ai traffici illeciti fioriti nel caos della Guerra Civile, un ricchissimo patrón. Ma se Eli McCullough, pur sognando la wilderness perduta, non esita ad adattarsi ai tempi nuovi calpestando tutto ciò che ostacola la sua ascesa, suo figlio Peter sogna invece un futuro diverso, che non sia quello del petrolio che insozza la terra e spazza via i vecchi stili di vita, e non può che schierarsi con trepida passione dalla parte delle vittime. La storia, però, la fanno i vincitori, ed ecco allora Jeanne, la pronipote di Eli, magnate dell'industria petrolifera in un mondo ormai irriconoscibile, in cui di bisonti e indiani non c'è piú neanche l'ombra, e i messicani sono stati respinti al di là del Rio Grande. Toccherà a lei affrontare, nel modo piú letterale possibile, un tragico e inesorabile ritorno del rimosso.
CHI È PHILIPP MEYER:
è cresciuto a Baltimora, Maryland. Ha lasciato il liceo a 16 anni. Dopo aver lavorato per diversi anni in un centro traumatologico, si è iscritto alla Cornell University, dove ha studiato letteratura inglese. Dopo la laurea, ha lavorato in banca, poi come operaio edile, e infine di nuovo in un ospedale. I suoi racconti sono usciti su «The New Yorker», «Esquire», «McSweeney's», «Salon» e l'«Iowa Review». Ruggine americana (Einaudi 2010 e 2014) è stato nominato Miglior libro del 2009 da «The New York Times», dal «Los Angeles Times» e dall'«Economist» ed è stato inserito nella Newsweek's list of «Best Books Ever», Amazon Top 100 Books of 2009, Washington Post Top 10 Books of 2009. Philipp Meyer è stato selezionato da «The New Yorker» tra i 20 migliori scrittori sotto i 40 anni. Il suo ultimo libro è Il figlio (Einaudi 2014).
E potevo terminare la recensione senza un pezzo rock? Concludo con un omaggio a Bruce Dickinson degli Iron Maiden che sta affrontando un momento difficile (speriamo torni presto sulle scene!!!). Nel 1982 la band pubblicava il singolo Run to the Hills (The Number of the Beast, 1982) che parlava proprio del conflitto tra nativi americani e bianchi: White man came across the sea He brought us pain and misery He killed our tribes killed our creed He took our game for his own need.
Noi ci andiamo a guardare il video originale:
Oh Jerry, e fossimo andate a scuola insieme ci saremmo scambiate un sacco di musicassette!! *_* Inizialmente come canzone mi era venuta in mente Fiume di Sand Creek di De Andrè, ma anche questa che hai scelto ci sta a pennello! [e me la canto!]
RispondiEliminaI periodi storici che attraversa questo romanzo sono tra i miei preferiti della storia americana, e le saghe familiari sono la mia passione! Lo prendo subito in ebook, e lo leggerò appena posso!! Grazie! :-*
No il "Fiume di Sand Creek"!!! Pezzo storico, grande Alenixedda!!! E ci stava proprio bene... me lo riascolto volentieri, è una vita! Mi sa che se fossimo andate a scuola insieme ci saremmo scambiate un sacco di musica e libri... che bello *_*!!!
EliminaPer quanto riguarda il romanzo, anche io sono una grande appassionata delle storia americana e soprattutto dell'epoepa di frontiera e questo romanzo proprio non delude!!! Un abbraccione!